- Pubblicazione il 09 Settembre 2020
Attraverso la rilevazione di due parametri è possibile identificare i pazienti a maggior rischio di decesso per COVID-19 in terapia intensiva. A dirlo è uno studio diretto e coordinato dal Policlinico Sant’Orsola di Bologna e pubblicato sulle pagine di Lancet Respiratory Medicine.
E’ sufficiente rilevare due parametri: la distensibilità del polmone e un indicatore ematochimico che si può quantificare attraverso un semplice prelievo del sangue (D-dimero). Questi due fattori consentono di identificare il gruppo di pazienti che è più a rischio di morte. Il virus infatti colpisce due componenti dei polmoni: gli alveoli e i capillari. Quando a essere danneggiati sono sia gli alveoli che i capillari polmonari muore il 60% dei pazienti. Quando il virus danneggia solo uno dei due componenti polmonari, o alveoli o capillari, la percentuale di pazienti che vanno incontro a decesso si assesta attorno al 20%. Si può quindi parlare di una sorta di “fenotipo” di pazienti in cui il virus provoca un danno doppio. Fenotipo che può essere riconosciuto attraverso la misurazione dei due parametri sopra citati.
“I risultati di questo studio oltre a permetterci di individuare fenotipi di malattia che presentano diversi gradi di severità e, quindi, necessitano di diversa intensità di cura, hanno anche dei risvolti terapeutici” commenta Paola Faverio, Responsabile Gruppo di Studio AIPO-ITS “Patologie Infettive Respiratorie e Tubercolosi”. Infatti il diverso coinvolgimento degli alveoli o dei capillari polmonari influenzerà rispettivamente i setting ventilatori e le scelte terapeutiche.”
“Queste osservazioni avranno sicuramente un impatto nel disegno dei futuri trial clinici sui malati affetti da COVID-19” conclude Paola Faverio.
Riconoscere il fenotipo del doppio danno significa identificare i pazienti a maggior rischio di morte e destinarli alle misure terapeutiche più aggressive come la ventilazione meccanica, la extra-corporeal membrane oxygenation (ECMO) e gli ambienti terapeutici a maggiore intensità di cura come le terapie intensive. Invece per i pazienti a “danno singolo” potrebbe essere sufficiente un setting meno invasivo di cure, quale la ventilazione non invasiva col casco e il ricovero in terapia sub-intensiva.
Lo studio è stato condotto su 301 pazienti ricoverati presso il Policlinico Sant’Orsola di Bologna, il Policlinico di Modena, l’Ospedale Maggiore, il Niguarda, l’Istituto Clinico Humanitas di Milano, l’Ospedale San Gerardo di Monza e il Policlinico Gemelli di Roma. Lo studio è stato coordinato dal Prof. Marco Ranieri, direttore dell’Anestesia e Terapia Intensiva Polivalente del Policlinico S. Orsola. Lo studio ha visto anche il coinvolgimento del Prof. Franco Locatelli dell’Ospedale Bambino Gesù, Presidente del Consiglio Superiore di Sanità e membro del CTS. Ampia la collaborazione tra diverse discipline (anestesia e rianimazione, pneumologia, radiologia, onco-ematologia, statistica medica) e diverse Università italiane (Università di Bologna, Università di Modena e Reggio Emilia, Università di Milano, Università di Milano-Bicocca, Università di Torino, Università Humanitas, Università Cattolica del Sacro Cuore) ed estere (Université Libre de Bruxelles, University of Ireland Galway e University of Toronto).
Ufficio Stampa AIPO-ITS