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24 marzo Giornata Mondiale della TBC: ne parla Giovanni Battista Migliori, esperto OMS

Il 24 marzo si celebrerà, come ogni anno, la Giornata Mondiale della Tubercolosi (TBC). La data ricorda il giorno del 1882 in cui Robert Koch annunciò la scoperta del bacillo che provoca la malattia, ancora oggi 13^ causa di morte nel mondo. E se tra gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’ONU c’è di avviarsi alla sua eliminazione (’”End TB”) entro il 2030, quest’anno lo slogan scelto per l’evento – “Yes! We can end TB” – sottolinea l’importanza della mission, per la quale tra l’altro la Regione europea dell’OMS si è posta, entro il 2030, obiettivi ambiziosi, parametrati rispetto al 2015: ridurre del 90% i decessi per TBC; ridurre l’incidenza della TBC dell’80%; raggiungere un tasso di successo del trattamento del 85% tra i casi di TBC multi-farmacoresistenti (MDR-TB).
Ma qual è la situazione (assai più problematica) della patologia nel resto del mondo, a partire dai dati offerti dal Global Tuberculosis Report, che l’OMS pubblica dal 1997, e che contiene la fotografia della situazione nei Paesi membri? Eccola, aggiornata con i dati 2021: la stima parla di 10,6 milioni di persone con TBC, e di 1,6 milioni di morti a causa della malattia. I bambini ammalati sono 1,2 milioni, e solo una persona su tre con MDR-TB nel 2020 ha avuto accesso al trattamento.
Per quanto riguarda l’Italia, per l’OMS il nostro Paese rientra tra quelli “a bassa incidenza”, cioè con meno di 10 casi di malattia ogni 100.000 abitanti. Nel 2021 i casi di TBC notificati sono stati 2.480, con un tasso di notifica pari a 4,2 casi per 100.000 residenti, in aumento dell’8,4% rispetto al 2020, ma con una diminuzione del 25,9% rispetto al 2019, diminuzione probabilmente legata alla pandemia COVID-19. Conforta sapere che dal 2010 al 2021 il tasso di notifica della malattia si è ridotto progressivamente (da 7,7 per 100.000 a 4,2 per 100.000), registrando nel 2020 il valore più basso (3,8 per 100.000 residenti).

Per saperne di più abbiamo intervistato Giovanni Battista Migliori, Direttore del Servizio di Epidemiologia Clinica delle Malattie Respiratorie - Centro di Collaborazione OMS/WHO per la Tubercolosi e le Malattie Respiratorie - Istituti Clinici Scientifici Maugeri, IRCCS, Tradate (VA), che il 25 marzo prossimo alle ore 17.00 sarà protagonista di un webinar dedicato a “La Tubercolosi: questa sconosciuta”, moderato dal Presidente AIPO-ITS/ETS Claudio Micheletto, Direttore UOC di Pneumologia - A.O.U. Integrata di Verona, e organizzato da AIPO-ITS/ETS.

Professor Migliori, qual è l’importanza di questa Giornata Mondiale contro la TBC?
“La Giornata Mondiale costituisce un importante strumento di advocacy e di stimolo alla coscienza collettiva, ed è un veicolo di messaggi educativi e informativi alla popolazione in generale. Certo, in Italia ci sarà solo qualche celebrazione su scala ridotta, in quanto da noi la TBC non rappresenta una priorità di salute pubblica. Ma nel mondo la tubercolosi provoca ancora milioni di casi e milioni di morti, concentrati nei Paesi poveri o in determinate zone geografiche dove la farmaco-resistenza è elevata. Da noi la situazione è, per fortuna, ben diversa: siamo sotto ai 10 casi ogni 100.000 abitanti (in realtà a meno della metà di questa soglia), un valore che ci accomuna ai Paesi ‘a bassa incidenza’. Nel nostro Paese la malattia tende a manifestarsi soprattutto tra i migranti e negli altri gruppi a rischio. Per questo la strategia di controllo, a partire dagli anni Settanta, è cambiata, e ora ci si concentra sui contatti dei casi conclamati, procedendo allo screening per circoli concentrici (la famiglia, la classe scolastica, il luogo di lavoro, etc.). L’OMS spinge per testare attivamente i gruppi a rischio. Per esempio nei luoghi di arrivo dei migranti lo screening della TBC viene fatto insieme a quello di altre malattie".

Esiste il pericolo concreto che i migranti possano diffondere un ipotetico contagio?
“Dobbiamo sfatare il mito del migrante che trasmette malattie. Ci sono studi che dimostrano con chiarezza come i migranti, anche in caso di presenza di TBC, la trasmettano solo all’interno dei loro circoli: nei dormitori, o in appartamenti sovraffollati dove manca la ventilazione, ma molto raramente alla popolazione autoctona. La possibilità di contrarre la tubercolosi per strada, passando accanto a un malato che tossisce, o sui mezzi pubblici è irrisoria. Potrebbe teoricamente capitare di infettarsi tramite una colf malata, che frequenti con costanza l’abitazione, o in altri luoghi di lavoro. Abbiamo avuto in passato micro-epidemie circoscritte all’interno di un gruppo che prendeva lo stesso autobus alla stessa ora due volte al giorno per molti giorni consecutivi, o in ambiente sanitario: nella maggior parte delle quali il caso indice era italiano. Da questo punto di vista i migranti, in linea generale, non costituiscono un problema. E da noi non esiste una previsione di un vero ritorno della tubercolosi”.

Quali fattori hanno inciso sul fatto che l’Italia sia finalmente diventata un Paese “a bassa incidenza”?
“La storia è lunga. Nei primi vent’anni del Novecento si è fatto molto contro la TBC: è stato creato un sistema di sanatori e dispensari che costituivano un’eccellenza mondiale - pensiamo a Sondalo - dove i malati guarivano non solo per l’aria buona, il riposo, il buon cibo (a chi ne aveva bisogno venivano ricostruiti i denti a spese dello Stato per permettere una corretta alimentazione), ma anche perché si praticava il pneumotorace, che togliendo ossigeno al bacillo di Koch lo metteva, per così dire, in ginocchio favorendo la risposta immunitaria dei pazienti. Risale a quegli anni la creazione di una rete di dispensari provinciali dotati di personale specializzato – tisiologi e infermieri esperti – di cui Villa Marelli, a Milano, costituisce l’esempio perfetto, e che aveva tra l’altro anche la funzione di raccogliere dati, offrendo statistiche da utilizzare a scopi clinici, di prevenzione e di educazione sanitaria.
Poi la situazione è cambiata: nuovi farmaci, nuove condizioni di vita, nuclei familiari meno numerosi e quindi con minore diffusione del contagio, condizioni igienico-sanitarie e nutrizionali migliori. I casi di TBC sono scesi, le strutture sono state gradualmente trasformate e destinate alla cura di altre patologie respiratorie. E gradualmente, tra gli anni Settanta e Novanta, si è passati da uno screening diffuso alla popolazione generale o ad estese fasce di professioni ritenute a rischio (per esempio alimentaristi e insegnanti) allo screening dei gruppi a rischio”.

Com’è, invece, la situazione nel resto del mondo? E quali sono i Paesi più a rischio?
“La situazione in alcuni Paesi è seria. Penso ai Paesi definiti dall’OMS ad alta endemia (‘high burden’), per esempio in Asia (India, Cina, Indonesia, Pakistan, Filippine, Pakistan, Bangladesh tra gli altri) e nell’Africa Sub-Sahariana. Paesi dove esistono grandi sacche di povertà, e dove la malattia sopravvive, e si diffonde, proprio grazie alla presenza delle componenti fattoriali di cui sopra, che in Italia e nell’Europa Occidentale abbiamo superato da tempo. Esistono poi sacche geografiche di farmaco-resistenza in aree specifiche, molto diverse tra loro, come i Paesi dell’ex-URSS, il Sudafrica o la Papua Nuova Guinea, per fare alcuni esempi. Questi Paesi hanno avuto ed hanno ampio accesso a farmaci antitubercolari di seconda linea (non sempre utilizzati in modo corretto) e programmi di controllo con problemi a diagnosticare e trattare correttamente i pazienti. Nell’ex-Unione Sovietica, ad esempio, i fluorochinoloni che possono essere acquistati in farmacia senza prescrizione medica, sono stati utilizzati in abbondanza per semplici bronchiti (in quanto farmaci ad ampio spettro) favorendo lo sviluppo di resistenza. In Italia contiamo meno di 100 casi di MDR-TB all’anno, ma in Paesi come Russia, Bielorussia, Moldova e Ucraina, come in tutta la regione, ce ne sono molti, e possono arrivare da noi, soprattutto ora con i movimenti di popolazione causati dalla guerra. Ma ripeto, anche in questo caso non ci sono pericoli per la popolazione generale, anche se certamente i pazienti immunodepressi o in trattamento per neoplasie o con farmaci biologici sono più esposti, e non a caso per questi pazienti lo screening è più accurato".

Può spiegarci come ci si ammala di tubercolosi? E come ci si cura?
“Semplificando, la storia naturale della TBC ha due stadi principali. Il primo è quello dell’infezione che richiede un contatto prolungato (diverse ore) con un malato in ambiente chiuso e non ventilato. In questa fase i bacilli vivi entrano nel polmone, vengono circondati dalle difese immunitarie, e restano vivi ma dormienti. In questa fase il test risulta positivo, ma non c’è né malattia, né contagiosità. Il paziente sta bene, non ha alcun sintomo. Con la radiografia del torace si vede se il polmone è pulito, e allora si pratica la cosiddetta ‘terapia dell’infezione’ in Italia conosciuta anche come ‘chemioprofilassi’, a base di uno o due farmaci ben tollerati per una durata di 3-4 mesi. Circa il 10% degli infettati (il 5% nei primi 2 anni dopo l’infezione) svilupperà la malattia tubercolare. Sono questi gli individui con fattori di rischio o geneticamente predisposti, in cui i bacilli iniziano a moltiplicarsi, superano le difese immunitarie e creano una cavità nel polmone che, ‘rompendosi’ in un bronco (quindi comunicando con l’esterno), attraverso la tosse, rende la persona contagiosa: è la fase della malattia. In questo caso la radiografia non è ‘pulita’ ma ne mostra i segni; gli esami microbiologici sono in genere positivi, ed il paziente presenta sintomi come tosse cronica (da 2 settimane o più viene considerata sospetta), malessere generale, perdita di peso, sudorazioni notturne. A quel punto la strategia è diversa se ci si trova di fronte a un caso sensibile ai farmaci, in cui la terapia dura 6 mesi (riducibili a 4 in assenza di cavità polmonari, nelle forme definite dall’OMS non severe), con 4 farmaci per i primi due mesi e 2 farmaci per gli ultimi quattro mesi. Se invece ci si trova di fronte a un caso di farmaco-resistenza la situazione si complica: la terapia, può avvalersi del nuovo regime ‘BIPaL’, che dura 6 mesi, con 3 (o 4) farmaci, o di un regime di 9 mesi o di un anno, a seconda del tipo di resistenze presenti e della presenza di effetti collaterali. I farmaci di seconda linea, che occorre utilizzare nelle forme di MDR-TB, oltre che molto più costosi possono causare effetti collaterali importanti. Ci sono poi problematiche di fondo, in quanto la farmaco-resistenza è più frequente in gruppi a rischio che sono più difficili da seguire: tossicodipendenti, migranti, nomadi, senzatetto, carcerati, per fare alcuni esempi. A tutti loro è difficile garantire una continuità della terapia, anche perché spostandosi in continuazione tendono ad abbandonare le cure”.

Resta cruciale la fase del test…
“Certo. E su questo fronte, accanto al tradizionale test Mantoux, che misura in millimetri l’indurimento cutaneo provocato dall’iniezione intradermica di tubercolina (e che classicamente risulta positivo anche nei vaccinati e nei pazienti con Micobatteri atipici), abbiamo i nuovi test IGRA, basati sul dosaggio di ‘Interferon Ƴ’. Si tratta di un esame ematico, più costoso del precedente ma con alcuni vantaggi grazie alla presenza di antigeni selezionati”.

Quali sono i principali problemi che voi clinici dovete affrontare sul fronte della TBC?
“Ce ne sono diversi. Della farmaco-resistenza abbiamo detto. Per quanto riguarda l’Italia, la sua condizione di Paese ‘a bassa incidenza’, fa paradossalmente sì che il personale sanitario conosca poco la malattia, quando considerarla nella diagnosi differenziale, come diagnosticarla e trattarla. E’ quindi importante che sappiano quanto meno a chi rivolgersi in caso di dubbio diagnostico; abbiamo eccellenti centri di riferimento a disposizione per questo.
Un altro problema è quello relativo al trattamento degli individui cui sia stata diagnosticata l’infezione tubercolare. Immaginiamo una mamma cui viene spiegato come una probabilità del 10% di sviluppare la TBC sia bassa, o venga posto l’accento sui rari e gestibilissimi effetti collaterali. La tendenza sarà di rifiutare la terapia dell’infezione. Ma qui si torna alla conoscenza della malattia e delle linee guida OMS/WHO che chiaramente raccomandano di trattare l’infezione tubercolare recente. La TBC va vista come un iceberg: i casi di malattia sono la parte emersa, gli individui con infezione, molto più numerosi, la parte sommersa. Vero è che solo una porzione di questi casi ‘sommersi’ evolverà in malattia, ma se si vuole eliminare la TBC (arrivare a meno di un caso per milione di abitanti) occorre togliere potenza al suo serbatoio, ovvero alla parte sommersa dell’iceberg. Per questo l’OMS spinge per uno screening più completo dei gruppi a rischio”. 

Quali sono, a suo avviso, le strategie possibili?
“Serve un approccio su diversi fronti. Occorre spingere sulla prevenzione, per una migliore diagnosi e terapia dell’infezione latente; bisogna migliorare la rete per intercettare tutti i possibili casi di infezione e di malattia, assicurando l’esistenza di una struttura funzionale (chi fa cosa e quando); è necessario investire in formazione e informazione del personale sanitario; servono grossi investimenti nei Paesi ad alta endemia ed alta incidenza di MDR-TB. E in generale, nonostante i grandi progressi ottenuti, occorre investire perché i test siano sempre migliori, e gli schemi terapeutici sempre più brevi e meglio tollerati: in 10 anni siamo passati, per la cura dei pazienti sensibili, da 9 a 6-4 mesi di terapia, e per i farmaco-resistenti da 2 anni a 6 mesi. Occorrono maggiori investimenti da parte dell’industria farmaceutica e delle ‘partnership’ pubblico-privato per accorciare ulteriormente i tempi di cura con regimi ben tollerati: più la cura è breve, più è facile – rendendo più raro l’abbandono della terapia e l’insorgenza di resistenze. Ma essendo la TBC una malattia dei poveri, questi investimenti non garantiscono grossi ritorni economici. E di conseguenza la ricerca rallenta”.

Possiamo fare di più in Italia?
“Certamente in Italia ed in Europa possiamo e dobbiamo fare di più. Credo la prima priorità sia di garantire in Italia l’equivalente che i Paesi ad alta endemia chiamano National TB programme, il programma nazionale. Non una struttura verticale, ma un organismo funzionale credibile, finanziato, con un responsabile in grado di coordinare le attività che oggi sono frammentate nei programmi regionali, ben funzionanti in alcune Regioni e meno in altre, ma comunque senza un responsabile che possa agire rapidamente in caso di necessità, coordinando prevenzione, diagnosi e terapia, rappresentando l’Italia negli eventi internazionali OMS/WHO, e assicurando che i dati di sorveglianza italiani completi raggiungano ECDC ed OMS, etc. Questa struttura funzionale, e un suo responsabile, mancano in Italia come accade in molti Paesi europei a bassa incidenza. Recentemente un Paese con problematiche simili al nostro, la Polonia, ha richiesto all’OMS di organizzare una ‘Programme Review’ per ripristinare il programma polacco, in considerazione delle problematiche specifiche legate alla guerra (migranti, rifugiati, profughi ai confini, aumento dei casi di MDR-TB, etc.)".

E riguardo alla formazione, a che punto siamo?
“Sulla formazione si può fare di più e meglio. I nuovi specializzandi, un esercito di 400 giovani pneumologi, necessitano di un modulo formativo di qualità sugli aspetti clinici e di salute pubblica della TBC, e allo stesso modo tali contenuti andrebbero assicurati nei corsi universitari per medici e per le altre professioni sanitarie.
I Centri di riferimento, infatti, svolgono un lavoro di qualità, ma soffrono per carenze di personale e di formazione adeguata. Oltre all’Università, le Società Scientifiche nazionali e internazionali possono fare molto per rilanciare l’informazione e la formazione sulla TBC, coprendo bene gli aspetti di Sanità Pubblica, oltre a quelli clinici. Esistono inoltre corsi di qualità (ovviamente in lingua Inglese, ma oggi questo non costituisce più una barriera), come il corso online dell’OMS e il Corso di Sondalo, che permettono di approfondire questi aspetti aprendo inoltre nuove opportunità professionali a livello internazionale”.

 

Alessandra Rozzi
Ufficio Stampa AIPO-ITS/ETS