- Pubblicazione il 20 Marzo 2024
È sulla bocca di tutti come una parola magica. O meglio, come la panacea di tutti i mali della problematica Sanità italiana. Ne parlano i politici, i cittadini, i mezzi d’informazione, non sempre con cognizione di causa. Ne parlano (e fortunatamente la praticano) i clinici, pur rammaricandosi della sua disomogenea diffusione sul territorio italiano. La Telemedicina, insomma, è di moda, e molto si sta muovendo su questo fronte. Per saperne di più ci siamo rivolti al Dr. Michele Vitacca, Direttore U.O. Pneumologia Riabilitativa dell’ICS Maugeri di Lumezzane (BS) nonché Direttore del Dipartimento Pneumologico di tutta la ICS Maugeri, che rappresenterà AIPO-ITS/ETS alla giornata dedicata alla Telemedicina in calendario il 22 marzo prossimo all’Università di Brescia per iniziativa della piattaforma ecosistematelemedicina.it.
Dottor Vitacca, si fa un gran parlare di Telemedicina. Cosa s’intende, esattamente, con questo termine?
“In senso proprio la Telemedicina è la medicina a distanza, che si pratica da molti anni. L’accelerazione sul recente periodo è dovuta essenzialmente a due cause: il COVID e gli investimenti europei previsti in quest’ambito dal PNRR. La definizione di Telemedicina, comunque, comprende diverse attività, che presuppongono altrettante scommesse da vincere: ridurre le irregolarità di accesso alle cure migliori, farsi carico in modo più efficiente dei pazienti anziani e cronici, e realizzare quell’integrazione tra Sanità e Sociale che metta in comunicazione tutti i sistemi attivi attorno alla patologia e al paziente in modo trasversale. Le aspettative sono alte, e per così dire multilivello: ci aspettiamo una maggiore inclusione, un uso più appropriato delle risorse economiche, la possibilità di erogare cure mirate, appropriate e parametrate sul bisogno del paziente in quel preciso momento, e quindi accelerate o posticipate a seconda di un’esigenza reale. Prima c’era una medicina ‘di attesa’; con la Telemedicina si può arrivare a una medicina ‘del qui e ora’, molto più efficiente”.
Sembrerebbe un’innovazione in grado di migliorare radicalmente la situazione
“In realtà i fronti su cui ci attendiamo risultati sono tre, e diversi: quello dei clinici, che dalla Telemedicina potrebbero guadagnare in termini di multidisciplinarietà e coordinamento, di migliore identificazione delle red flags relative a riacutizzazioni e riospedalizzazioni, e una migliore condivisione delle informazioni. C’è poi il fronte del Pagatore - sia esso il SSN, le Regioni o, in parte minore, le assicurazioni sanitarie - che ne guadagnerebbe in termini di migliore economia delle risorse, visto che con la Telemedicina si otterrebbe una riduzione delle riacutizzazioni, una riduzione delle ospedalizzazioni in numero e in durata, e una risposta migliore e più veloce rispetto ai bisogni dei pazienti, soprattutto anziani e cronici. Infine, i risultati attesi sul versante del paziente riguardano una sua maggiore consapevolezza rispetto alla patologia e alle cure, una maggiore motivazione, meno viaggi verso le strutture sanitarie e minori liste di attesa per visite ed esami. Sono vantaggi innegabilmente importanti. Ma al tempo stesso occorre evitare di trasformare la Telemedicina in un totem, e ricordare sempre che si tratta di un mezzo, non di un fine. È uno strumento, e come tale va comunicato. Può essere utile, può essere che i pazienti – e la discriminante non è l’età – la accettino. Ma può anche darsi che venga rifiutato, o perché manca il contatto diretto con il sanitario, o perché manca la preparazione tecnologica o ancora, e mi è successo, per timori relativi alla paura di un controllo esterno tipo Grande Fratello orwelliano. Certo, con l’aumento progressivo della fragilità e della cronicità, la Sanità intesa in senso classico, basata su medicina territoriale e gestione di questi problemi totalmente in carico agli ospedali, ha mostrato il fianco, e continuerà a farlo”.
Su quali fronti la Telemedicina potrebbe dare i vantaggi maggiori?
“Pensiamo alle diagnosi a distanza conseguenti alla tele-realizzazione di esami diagnostici come un elettrocardiogramma o una spirometria; pensiamo alla ‘messa in rete’ di tutte le informazioni che riguardano il paziente, con la creazione di un contenitore fruibile da tutte le parti in causa: medico di base, farmacia, specialisti; pensiamo, ancora, alle televisite e ai consulti a distanza tra diversi specialisti, alle valutazioni tra pari, al telemonitoraggio, che permette l’invio di segnali biologici tramite una strumentazione presente al domicilio del paziente, e che il clinico può esaminare in tempo reale o in differita, decidendo poi i tempi d’intervento e le terapie migliori, magari partecipando a una sorta di ‘tavolo dei sogni’ che veda presenti il medico di medicina generale, lo psicologo, i Servizi socio-assistenziali, lo specialista. Un altro grande campo di applicazione della Telemedicina è quello relativo agli stili di vita, con app che tramite memo o alert ricordino al paziente di fare attività fisica, di bere, di assumere i farmaci e molto altro. E un nuovo filone, recentissimo, viene dall’Intelligenza Artificiale, che connettendo migliaia di informazioni in un attimo permette di prevedere con un certo grado di attendibilità cosa potrà capitare al paziente. Ci sono poi i grandi ambiti della Teleriabilitazione e della Chirurgia a distanza, quest’ultima permessa dalla rivoluzione robotica. Sono solo esempi, certo significativi. Ma ripeto: non bisogna farsi ubriacare, pensando che attraverso la Telemedicina si risolverà ogni problema. Il rischio, altrimenti, è quello di aggiungere costi e tempi alla situazione già difficile della Sanità italiana. La Telemedicina è uno strumento, e come tale va usato - e comunicato - bene, altrimenti rischia di diventare un boomerang”.
Qual è la diffusione della Telemedicina in Italia? Si può parlare di omogeneità?
“No, si tratta di una diffusione assolutamente a macchia di leopardo, con alcune Regioni in pole position e altre assolutamente al palo. In testa a un’ipotetica classifica c’è senz’altro la Lombardia, che su questo fronte è partita fin dagli anni Duemila attivando protocolli sulla BPCO, il post-ictus, il COVID, il diabete, e che è l’unica Regione ad aver finanziato attraverso lo strumento del DRG alcune di queste prestazioni, dopo un certo numero di sperimentazioni che hanno funzionato bene. Certo, la tariffazione regionale è ancora sperimentale, ma queste pratiche sono, come dire, ‘sdoganate’, a regime: penso a pazienti con BPCO moderata severa o al monitoraggio dei pazienti cardiologici con scompenso cardiaco. Ma c’è ancora molta strada da fare: mancano i criteri definitivi di inclusione o esclusione dei pazienti nei protocolli, manca una valutazione definitiva dei costi/benefici per grosse coorti quali quelle legate a pazienti con Insufficienza respiratoria cronica, a chi ha ricevuto a domicilio un ventilatore meccanico in grado di inviare dati ai clinici in tempo reale, a SLA, all’asma grave; ci sono problemi di privacy da chiarire; c’è la questione del costo enorme dei macchinari affidati al paziente a domicilio. E questo senza contare che nella maggior parte delle Regioni italiane la Telemedicina è quasi un miraggio.
Come si può arrivare, dunque, a una ‘messa a sistema’? Il PNRR ha stanziato 1 miliardo e mezzo di euro per la Telemedicina destinata ai cronici…
“Sì, gli stanziamenti ci sono, ma manca il Ministero della Salute, che ha sì tracciato le linee guida, ma deve fare molto altro. Perché i fondi del PNRR arrivino davvero, occorre che da qui al 2026 i percorsi di Telemedicina di cui abbiamo parlato coprano almeno il 10-15% della popolazione italiana. Sono preoccupato: il Ministero dovrebbe raccogliere le buone pratiche in atto, chiedere ai clinici cosa è necessario fare, ci vorrebbe un tavolo comune con partecipanti competenti, capace di mettere in atto un work in progress che andrebbe poi realizzato e verificato nella realtà. Il Ministero deve mettere urgentemente a terra dei Percorsi Diagnostico-Terapeutici (PDTA) sull’uso di questo strumento, chiarendo a quali pazienti sia destinato e con quali modalità: deve, in sostanza, fornire lo standard, e a quel punto ogni Regione potrà far propria la questione in base alle sue peculiarità, ponendo incentivi e disincentivi, finanziando percorsi e mettendo corposi, e necessari, paletti di verifica”.
E sul fronte della formazione, a che punto siamo?
“Anche qui occorre fare molto: servirebbe una completa rivisitazione del mondo accademico, che dovrebbe far proprie nuove modalità di insegnamento relativamente al mix tra vecchio modo e nuovo modo di fare sanità alla luce della tecnologia che costituisce la medicina del futuro. Invece da un lato ci sono grosse resistenze, dall’altro fughe in avanti, legate – inutile negarlo – anche a questioni di interessi: basti pensare all’enorme numero di start-up che produce ogni genere di ‘oggettistica’ legata alla Telemedicina. Tipicamente italiana poi – ma questo riguarda anche il mondo dell’industria e degli ospedali – è la totale mancanza di capacità di fare rete, per cui ogni soggetto si muove motu proprio, badando al proprio interesse e rendendo difficili, se non impossibili, i progetti sui grandi numeri. In Europa, al contrario, la situazione è totalmente diversa”.
Alessandra Rozzi
Ufficio Stampa AIPO-ITS/ETS