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La Terapia Intensiva (ICU) e la Terapia Semi-Intensiva Respiratoria (RIICU) sono ambienti che mettono a dura prova non solo – ovviamente - i pazienti che ne hanno necessità, ma anche il team sanitario, e forse ancor di più il team riabilitativo. Oltre all’obiettivo di garantire la sopravvivenza dei pazienti, infatti, nella pratica medica moderna vanno valutati molti altri indici di risultato relativi alla degenza: giornate di degenza in ICU/RIICU, di ventilazione meccanica (quanto si impiega per arrivare allo svezzamento), insorgenza di sepsi, lesione da pressione, gestione delle comorbilità, carico di farmaci e ossigeno. Inoltre, proprio per i successi della medicina nei pazienti in condizioni critiche, l’attenzione è stata spostata anche sugli indici di risultato a medio e lungo termine. In questo caso la o le disabilità residue del paziente sono il focus principale di tale filone di ricerca clinica.
In altre parole, il paziente sopravvissuto a un evento catastrofico (es., una grave riacutizzazione di BPCO, un ARDS) come è sopravvissuto? Quali problematiche, deficit funzionali, necessità di assistenza e disturbi limitanti la propria vita di relazione e il percorso sanitario sono state lasciate in eredità da quell’evento acuto e dalla successiva degenza in ICU/RIICU?
La problematica maggiore e più conosciuta che ostacola la ripresa funzionale dei pazienti è la debolezza acquisita in ICU (ICU-acquired weakness): affligge una gran parte dei degenti in ICU (si stima siano circa 1 milione i pazienti affetti nel mondo!), comincia a manifestarsi precocemente durante la degenza, ed è multifattoriale. Concorrono infatti nella sua genesi il decondizionamento e l'immobilità al letto, una miopatia e una neuropatia, l'impiego di farmaci e fenomeni settici. La debolezza acquisita in ICU è correlata a indici di risultato negativi: in primo luogo aumento della mortalità a breve, medio e lungo termine, e nei sopravvissuti ridotta capacità funzionale, dipendenza da ventilazione, ossigeno, persistenza di tracheostomia, aumento di impiego di risorse sanitarie e ridotta qualità della vita con necessità di elevati carichi assistenziali sociali e familiari.
Tra le problematiche forse sottovalutate vi è anche il deterioramento cognitivo a lungo termine. Sebbene la durata del delirio sviluppato in ICU sia stato associato a deterioramento cognitivo a lungo termine, altri fattori possono essere in gioco. Interventi farmacologici per prevenire o curare il delirio non hanno dato grandi risultati. Quindi il trattamento non farmacologico, come la precoce mobilizzazione del paziente in condizioni critiche, si è dimostrata fattibile e scevra di rischi consistenti accorciando la durata del delirio di circa la metà. Non vi sono tuttavia dati sufficienti per valutare la sua efficacia nel prevenire lo sviluppo del deterioramento cognitivo a lungo termine.
Per cercare di dare risposte almeno ad alcuni di tali quesiti, segnalo oggi un articolo che riporta i dati relativi a un lungo (dal 2011 al 2019!) e impegnativo clinical trial randomizzato effettuato nella ICU dell’Ospedale Universitario di Chicago, che ha coinvolto - dopo una selezione molto accurata - 100 pazienti nel braccio “usual care” e 100 pazienti nel braccio “early rehabilitation”.
Tra i criteri di inclusione segnalo la necessità di VM instaurata da meno di 96 ore e verosimilmente necessaria per le seguenti 24 ore. Vi erano tutta una serie di gravi situazioni cliniche (ad es. un’aspettativa di vita < 6 mesi) che hanno determinato invece l’esclusione di circa 1000 pazienti dal trial, e che rendono ragione della lunghezza – pur in una grande ICU metropolitana – del tempo di arruolamento. Una condizione ugualmente necessaria era un’indipendenza funzionale (Barthel index > 70/100) prima dell’ammissione in ICU. La selezione e la randomizzazione 1:1 hanno generato due bracci del trial, ciascuno di 100 pazienti.
Nel braccio dell’usual care i pazienti venivano sottoposti a terapia riabilitativa e occupazionale solo quando il team riabilitativo lo decideva. Nel bracco di terapia riabilitativa e occupazionale precoce, i pazienti iniziavano tali terapie lo stesso giorno dell’arruolamento.
Seguiva un complesso protocollo che possiamo sintetizzare come segue: dopo la sospensione della sedazione, si iniziava la mobilizzazione progressiva, dapprima con l'escursione motoria e proseguendo con le attività di mobilizzazione a letto, il trasferimento in posizione seduta, poi eretta in piedi, marciando sul posto e camminando, come tollerato dal paziente. Esercizi e suggerimenti sono stati utilizzati per stimolare l'esecuzione dei comandi, aumentare l'interazione con il paziente e aumentare la forza e l'ampiezza di movimento delle estremità utilizzate per le attività funzionali. Una volta seduti, i pazienti partecipavano alle attività della vita quotidiana (ADL) e praticavano compiti funzionali. La progressione delle attività dipendeva dalla tolleranza e dalla stabilità del paziente. Criteri pre-specificati che precludevano l'inizio o la continuazione della sessione terapeutica includevano anomalie dei parametri vitali come pressione arteriosa media < 65 mm Hg o > 110 mm Hg, o pressione arteriosa sistolica > 200 mm Hg; frequenza cardiaca <40 o >130 battiti al minuto; frequenza respiratoria <5 o >40 respiri al minuto; e pulsossimetria < 88% o marcata asincronia del ventilatore, disagio de paziente, nuova aritmia, o incipienti segni di ischemia miocardica, o problematiche legate l'integrità del dispositivo per le vie aeree. Controindicazioni all'inizio della terapia includevano anche: aumento della pressione intracranica; perdita di sangue gastrointestinale attiva; ischemia miocardica attiva; procedure continue, inclusa l'emodialisi intermittente (ma esclusa l'ultrafiltrazione continua o l'emodialisi); agitazione del paziente che ha richiesto una maggiore somministrazione di sedativi negli ultimi 30 minuti; e la mancanza di un sicuro accesso alle vie aeree.
Le sessioni di terapia prevedevano un trattamento concomitante con un fisioterapista e un terapista occupazionale, e continuavano quotidianamente durante il ricovero fino alla dimissione dall'ospedale, oppure al ritorno al livello di funzionalità basale. La durata di queste sessioni variava dai 25 ai 30 minuti.
Un aspetto importante è l’accento posto dagli autori sul team riabilitativo: un team dedicato alla ICU, formato ed esperto. Le valutazioni erano effettuate utilizzando parametri e scale ampiamente validate (es. MoCA, Montreal Cognitive Assessment score, per quanto riguarda il deterioramento cognitivo).
L'outcome primario era il deterioramento cognitivo misurato un anno dopo la dimissione dall'ospedale. I pazienti sono stati valutati per deterioramento cognitivo, debolezza neuromuscolare, indipendenza funzionale e qualità della vita al momento della dimissione ospedaliera e ad un anno. I risultati sono in favore del trattamento riabilitativo precoce, sia per quanto riguarda il deterioramento cognitivo che per la debolezza acquisita in ICU.
Infatti, il deterioramento cognitivo era inferiore alla dimissione ospedaliera nel gruppo con mobilizzazione precoce (53,5% vs 68,7%; differenza -15,2%; IC 95%: da 28,6% a -1,7%; p=0,03 ). Il tasso di deterioramento cognitivo a un anno dalla dimissione ospedaliera (outcome primario dello studio) con la mobilizzazione precoce è stato del 24,2% rispetto al 43,4% con le cure tradizionali (differenza -19,2%; IC 95% da -32,1 a -6,3%; p= 0·004). 
A un anno, si è verificata una riduzione della debolezza acquisita in terapia intensiva (0% vs 14,1; differenza -14,1%; IC 95% da -21% a -7,3%; p<0,001) e un miglioramento dei punteggi della componente fisica nei test sulla qualità della vita (52·4 [45·3–56·8] vs 41·1 [31·8–49·4]; p<0·001) per i pazienti nel gruppo di mobilizzazione precoce.
Non c'era differenza nei tassi di indipendenza funzionale (64,6% vs 61,5%; differenza 3%; IC 95% da -10,4% a 16,4%; p=0,66) o nei punteggi delle componenti mentali (55 ·9 [50·2–58·9] vs 55·2 [49·5–59·7]; p=0·98) nei gruppi con mobilizzazione precoce e cure abituali, rispettivamente a un anno.
Questo studio dimostra che la mobilizzazione precoce può essere il primo intervento noto per migliorare il deterioramento cognitivo a lungo termine nei sopravvissuti in terapia intensiva dopo ventilazione meccanica.
Il commento allo studio ricalca quello già fatto a simili studi precedenti effettuati in pazienti in condizioni critiche. Non bisogna temere o, peggio, evitare un approccio fisioterapico e riabilitativo in senso lato anche – o soprattutto - in questi pazienti. La riabilitazione in ICU e in Semi-intensiva Respiratoria è fondamentale per migliorare gli indici di risultato della degenza del paziente.