- Pubblicazione il 10 Settembre 2018
L’immunoterapia utilizzata nel carcinoma polmonare non a piccole cellule (NSCLC) si basa su anticorpi monoclonali che bloccano la via metabolica attivata dalla proteina PD-1 (Programmed Death-1) sulle cellule del sistema immune ed è ormai entrata a pieno titolo nel trattamento sia di prima (pembrolizumab) che di seconda linea (nivolumab) delle forme avanzate o metastatiche. In una percentuale variabile tra il 25 e il 30% dei pazienti, questi farmaci sono in grado di rimuovere il blocco dell’immunità antitumorale che le cellule neoplastiche mantengono attraverso la produzione di PDL-1 (il ligando del recettore PD-1), con conseguente regressione della neoplasia e miglioramento della sopravvivenza.
Grande attenzione esiste ora sulla possibile utilità dell’immunoterapia negli stadi iniziali, nel setting adiuvante o neoadiuvante, ma i diversi studi di fase III sull’argomento sono ancora in corso di realizzazione. Nell’Aprile 2018 Forde e coll. hanno pubblicato sul New England Journal of Medicine uno studio di fase II, a singolo braccio, che valutava l’efficacia del nivolumab nel trattamento neoadiuvante del NSCLC. Sono stati arruolati 22 pazienti in stadio I, II o IIIA, tutti operabili, a 20 dei quali venivano somministrate 2 dosi di nivolumab (3 mg/kg ogni 2 settimane) nel mese che precedeva l’intervento. La possibilità di disporre del materiale istologico prelevato sia prima del trattamento sia dopo (pezzo operatorio), consentiva di dimostrare che la terapia con nivolumab determinava una risposta patologica maggiore nel 45% dei casi, a fronte di pochissimi eventi avversi che in nessun caso ritardavano l’intervento chirurgico. Il termine risposta patologica maggiore (Major Pathologic Response, MPR), viene utilizzato per valutare l’efficacia della chemioterapia neoadiuvante ed è definito come la presenza di una percentuale di cellule neoplastiche vitali nel pezzo operatorio inferiore al 10%. La MPR, che si riscontra in circa il 20% dei casi trattati con chemioterapia neoadiuvante, è correlata ad una riduzione delle recidive di malattia e ad un miglioramento della sopravvivenza a lungo termine e, talvolta, viene utilizzata come criterio per somministrare o meno il trattamento adiuvante. I dati di sopravvivenza forniti da Forde e coll. sembrano confermare questa tendenza: non presentava recidive l’80% dei pazienti a 12 mesi e il 73% a 18 mesi. Un altro dato interessante che emerge dallo studio è la marcata discrepanza tra la risposta istologica e quella radiologica: a fronte di una MPR in circa la metà dei pazienti, solo in due si rilevava una risposta parziale alla TC, mentre in 18 casi la lesione appariva stabile e in 1 caso incrementata. Sebbene il fenomeno della pseudo progressione, cioè l’ingrandimento delle lesioni neoplastiche dopo immunoterapia dovuta alla massiccia infiltrazione di cellule immuni, sia ben noto, nello studio di Forde questo fenomeno è stato studiato al meglio grazie alla disponibilità del pezzo operatorio, e si è dimostrato più comune di quanto precedentemente osservato. Per quanto attiene i marcatori predittivi, i livelli di espressione di PD-L1 sulle cellule neoplastiche non mostravano alcuna correlazione con la risposta istologica; al contrario del carico mutazionale (Tumor Mutation Burden, TMB), altamente predittivo di MPR.
Oltre ai dati prettamente clinici, lo studio analizzava gli effetti della somministrazione di nivolumab sulla risposta immunitaria T in 9 pazienti. E’ ben noto che il blocco del recettore PD-1 è in grado di accrescere le funzioni effettrici e l’attività citotossica dei linfociti CD8 intratumorali, vincendo la cosiddetta resistenza immune adattativa, cioè l’insieme dei meccanismi con cui le cellule tumorali tentano di proteggere sé stesse dall’azione del sistema immune. Forde e coll. hanno ipotizzato che il blocco di PD-1 sia anche in grado di potenziare il priming antigene-specifico dei linfociti T, sia a livello locale che sistemico. Questo aspetto, già descritto nell’animale da esperimento e nei pazienti con melanoma, avrebbe il potenziale, sempre secondo gli Autori, di eliminare le micrometastasi sistemiche responsabili dei casi di recidiva di malattia. Dopo la somministrazione di nivolumab, le cellule T tumore-specifiche andrebbero incontro ad un’espansione clonale e successivamente si sposterebbero nel circolo ematico o linfatico, riuscendo ad identificare e distruggere i depositi di micrometastasi. Queste ipotesi sarebbero supportate dall’osservazione che nei pazienti con MPR la popolazione di cellule T aveva una più alta clonalità rispetto ai pazienti con una risposta istologica meno evidente e più spesso si osservavano cloni di cellule T specifici per antigeni tumorali che erano presenti sia nel tumore che nel sangue periferico. Il sequenziamento dei T cell receptor confermava inoltre che la maggior parte di questi antigeni erano neoantigeni, cioè antigeni codificati da geni mutati tumore-specifici.
Il blocco dei check point immuni nel setting neoadiuvante rappresenta una delle frontiere dell’immunoterapia del cancro e questo studio fornisce indubbiamente dati innovativi sia sull’efficacia del trattamento sia sui meccanismi che ne sono alla base. Esistono tuttavia importanti limitazioni, di cui le più evidente sono il bassissimo numero di pazienti arruolati e la breve durata del follow-up. La conferma delle osservazioni di Forde e coll. è affidata quindi al completamento degli studi multicentrici di fase III che chiariranno se l’immunoterapia neoadiuvante è effettivamente in grado di aumentare i tassi di guarigione o la durata della sopravvivenza in questi pazienti, il numero ottimale di somministrazioni, i migliori marker predittivi di risposta al farmaco e la correlazione tra la risposta patologica e la sopravvivenza.
Bibliografia di riferimento
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