- Pubblicazione il 07 Giugno 2016
Nel numero del 16 maggio del BMJ è stata pubblicata un’interessante ricerca sul problema dell’errore medico, risultato come terza causa di morte dopo le patologie cardiache e neoplastiche, prima delle malattie respiratorie. L’argomento non è di pura pertinenza oncologica, ma coinvolge tutta la classe medica, indipendentemente dalla specialità e dal ruolo sia direttamente che indirettamente, come responsabile di gestione diagnostica e/o terapeutica sia con soggetti in prima persona sia attraverso colleghi e collaboratori, nel caso di dirigenti o responsabili di servizi sanitari.
Il dato, valido per gli USA, ma facilmente trasferibile alle nostre latitudini, appare paradossale ed inquietante, ma non inaspettato per chi è abituato a frequentare le corsie ospedaliere. Cerchiamo di capire come si è giunti a tale valutazione. Il sistema di codifica americano delle cause di morte, che adottiamo anche noi con altri 117 paesi sotto l'egida dell’OMS (ICD-10 Coding System), non prevede l’errore medico; quindi il CDC di Atlanta non è in grado di valutarne l’impatto. Esistono altre ovvie difficoltà nell’attribuire all’errore sanitario eventi drammatici che potrebbero configurare responsabilità quantomeno organizzative se non legate ad approssimazione, distrazione od ignoranza: in una parola a responsabilità colpose o dolose.
Gli Autori hanno raccolto i risultati di quattro studi che hanno analizzato 35.416.020 ricoveri ospedalieri fra il 2000 ed il 2008. In questa enorme mole di dati hanno individuato 251.454 decessi attribuibili ad errore medico. In realtà nello studio non sono state specificate quali metodiche sono state utilizzate per attribuire il decesso ad un errore. In ogni caso il numero ottenuto, rapportato ai decessi complessivi, assomma al 9,5% dei casi di morte, situando l’evento al terzo posto prima dei decessi per malattie respiratorie. Gli Autori osservano che il numero è comunque da considerare limitato ed ormai superato e infine suggeriscono alcune strategie, per lo più conoscitive, per valutare meglio l’entità del problema: fra queste l’inserimento di una causale specifica all’interno dell’ICD Coding System ed un controllo diretto da parte delle Direzioni Sanitarie Ospedaliere, tipo Risk Management Unit, per monitorare direttamente il problema. “Conditio sine qua non” imprescindibile è l’assoluto anonimato della denuncia.
Anche se, come già detto, non è facile affermare che i dati siano trasferibili anche in Italia, c’è da chiedersi se l’eccessiva velocizzazione dei ricoveri, l’uso dei Day Hospital e dei Day Surgery, anche in soggetti a rischio o fragili, la carenza di personale medico ed infermieristico non finiscano per influenzare negativamente quella gestione collegiale e protetta che del ricovero ospedaliero fa un unicum insostituibile. Quel controllo di equipe, che la presenza collegiale garantiva, viene probabilmente a perdersi nell’esigenza di coprire i turni e permettere i recuperi. Non è sicuramente l’unica carenza e criticità. Infatti la grande maggioranza dei protocolli di trattamento finalizzata alla riduzione dei tempi di ricovero è di matrice americana, ma la nostra tendenza è quella di accettare in ambito pubblico e in modo spesso acritico, un sistema gestionale nato altrove con logiche di tipo privatistico – assicurativo.
In conclusione, l’articolo recensito tratta un argomento di grande interesse e di notevole portata etica, ma i risultati presentano limiti interpretativi legati soprattutto alla mancanza di indicazioni sui criteri e sulle metodiche usati per attribuire le morti ad errori sanitari e per specificare gradualità di giudizio. Per approfondire il valore delle argomentazioni espresse, come propongono gli Autori, potrebbe essere utile allargare la ricerca su casistiche altrettanto numerose dopo aver provveduto ad inserire una causale specifica per l’errore medico nell’ambito del sistema di codificazione di uso internazionale (ICD-10 Coding System).