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Lo studio SAVE (Sleep Apnea Cardiovascular Endpoints Study) è uno studio di prevenzione secondaria disegnato per valutare se il trattamento dell’apnea ostruttiva nel sonno (OSA) può ridurre il rischio di gravi eventi cardiovascolari in pazienti con malattia cardiovascolare stabilizzata.
Si tratta di un trial internazionale multicentrico randomizzato a gruppi paralleli con endpoint in cieco, che ha coinvolto 89 centri in 7 differenti paesi (Australia, Cina, Nuova Zelanda, India, Spagna, USA e Brasile), iniziato nel dicembre 2008 e concluso nel gennaio 2016 con un follow-up medio di 4 anni. E’ stato finanziato direttamente dai governi dei singoli paesi e dalle industrie del settore.
Precedentemente erano già stati pubblicati i dettagli del disegno dello studio e dell’analisi dei dati (1). In questo articolo, pubblicato sul The New England Journal of Medicine, Doug McEvoy e collaboratori riportano le conclusioni del trial nel quale sono stati valutati 15.325 pazienti di cui 5.844 hanno soddisfatto i criteri iniziali di ammissibilità dopo essere stati sottoposti ad un esame diagnostico notturno con l’Apnea-Link con conferma della presenza di OSA moderato-grave. I criteri di esclusione sono stati la presenza di BPCO con saturazione a riposo < 90%, classe NYHA 3-4, eccessiva sonnolenza (ESS > 15) o rischio aumentato di incidenti causati da sonnolenza, grave, desaturazione notturna (SaO2 < 80% per più del 10% del tempo), presenza di respiro di Cheyne-Stokes.
Dopo una settimana di run-in con sham CPAP (in cui era richiesta una aderenza di almeno 3 ore per notte) sono stati reclutati 2.717 soggetti (oltre il 60% da centri cinesi) con una età tra i 45 e i 75 anni affetti da OSA da moderata a grave e coesistente malattia coronarica o cerebrovascolare. I partecipanti sono stati randomizzati in due gruppi distinti di trattamento, un gruppo con CPAP e terapia farmacologica e l’altro gruppo con la sola terapia farmacologica.
L’endpoint primario era un composito di morte per cause cardiovascolari, infarto miocardico (incluso IMA silente), ictus o ospedalizzazione per insufficienza cardiaca, sindrome coronarica acuta (inclusa angina instabile) o TIA. L’endpoint secondario invece comprendeva i singoli componenti dell’endpoint primario, altri eventi cardiovascolari, procedure di rivascolarizzazione, fibrillazione atriale di prima insorgenza, diabete di nuova diagnosi, morte per qualsiasi causa, alterazione della qualità della vita correlate allo stato di salute, russamento, sonnolenza diurna e turbe dell’umore.
Le conclusioni sono state che il rischio di gravi eventi cardiovascolari non era inferiore tra i pazienti che hanno ricevuto trattamento con CPAP in aggiunta alla terapia farmacologica rispetto a coloro che hanno ricevuto la sola terapia tradizionale. Il trattamento con CPAP è stato associato ad una maggiore riduzione dei sintomi come la sonnolenza diurna, con una migliore qualità della vita, miglioramento del tono dell'umore e una riduzione delle assenze dal lavoro.
Quindi sembra che l’utilizzo della CPAP non abbia un effetto protettivo sul rischio cardiovascolare a differenza di altri lavori pubblicati in passato.
Infatti, vari studi (ricordiamo il Busselton Health Study, il Wisconsin Sleep Cohort Study, il CANPAP) hanno indagato l’associazione tra l’OSA e le conseguenze cardiovascolari come l’ipertensione arteriosa, l’insufficienza cardiaca congestizia, le aritmie come la fibrillazione atriale, la malattia ischemica coronarica e l’ictus (2). Studi clinici di tipo osservazionale hanno dimostrato come l’uso della CPAP possa prevenirne l’insorgenza di complicanze cardiovascolari (3).
Dall’analisi dei dati dello studio SAVE pubblicato emerge che i partecipanti assegnati al braccio CPAP hanno aderito al trattamento per una media di solo 3,3 ore per notte (nonostante follow-up a 1-3-6 mesi dall’inizio della terapia e contatti ogni 6 mesi fino alla fine dello studio) per i 4 anni di durata del periodo di osservazione, inferiore anche alle raccomandazioni di utilizzo minimo accettabile per notte che è di almeno 4 ore.
Una potenziale limitazione dello studio è che per alcuni dei paesi partecipanti la diagnosi e il trattamento dell’apnea nel sonno non erano una pratica ben consolidata nell’attività clinica quando è iniziato il trial e questo può giustificare perché l’utilizzo della CPAP è andato gradualmente riducendosi come ore per notte nel corso dello studio, da 4,4 ± 2,2 ore per notte nel primo mese di utilizzo a 3,3 ± 2,3 ore per notte nel periodo di follow-up (peraltro maggiore di quanto atteso dagli sperimentatori).
Il livello di aderenza complessivo può non essere stato sufficiente a fornire effetti sugli outcome cardiovascolari come erano stati ipotizzati. Quindi il messaggio di questo lavoro è che per le malattie cardiovascolari, come per gli altri deficit associati alle apnee nel sonno, non è importante “usare la CPAP”, ma è fondamentale usarla il più possibile perché, come è stato dimostrato, l’effetto della terapia è dose dipendente intendendo per dose il numero di ore di CPAP efficace per notte (4). Questo lavoro una volta di più ci conferma l’importanza dell’aderenza alla terapia a pressione positiva per ottenere i risultati attesi.

Bibliografia

  1. Antic NA, Heeley E, Anderson CS, et al. The Sleep Apnea cardioVascular Endpoints (SAVE) trial: rationale, ethics, design, and progress. Sleep 2015;38:1247-57.
  2. Gopalakrishnan P, Tak T. Obstructive sleep apnea and cardiovascular disease. Cardiol Rev 2011;19:279-90.
  3. Marin JM, Carrizo SJ, Vicente E, Agusti AG. Long-term cardiovascular outcomes in men with obstructive sleep apnoea-hypopnoea with or without treatment with continuous positive airway pressure: an observational study. Lancet 2005;365:1046-53.
  4. Weaver TE, Maislin G, Dinges DF, et al. Relationship between hours of CPAP use and achieving normal levels of sleepiness and daily functioning. Sleep 2007;30:711-9.