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Lettera da un reparto Covid. Claudio Micheletto scrive ai no vax

Caro amico ti scrivo

La canzone di Lucio Dalla nell’ultimo periodo è stata ricordata in numerose occasioni. Esprime speranza, fiducia per un futuro migliore, sentimenti che si provano alla fine dell’anno. Breve bilancio degli ultimi dodici mesi e poi si guarda avanti, andrà sicuramente meglio. Quest’anno è molto più difficile. La pandemia doveva durare poco, qualche mese ed il virus se ne sarebbe andato. Invece siamo ancora qui, nel mezzo di una prolungata emergenza, che ha aspetti economici, culturali, sociali e sanitari. Siamo tutti provati, stanchi ed incattiviti, le regole e le varie ondate hanno limitato il lavoro, la scuola, la socializzazione. Gli Ospedali hanno dovuto dedicare molte risorse e molto personale alla gestione di questa terribile infezione, limitando le altre attività. Noi per la terza volta abbiamo chiuso la Pneumologia ordinaria, gli ammalati di BPCO, fibrosi, insufficienza respiratoria vengono gestiti in altri reparti.

Una recente domenica mattina solito giro in reparto. I medici non hanno bisogno di me, ma la situazione è sempre in evoluzione, preferisco controllare. Sulle scale che portano al reparto COVID, nella palazzina staccata da tutto il resto, trovo un signore che cammina nervosamente. Mi chiede notizie di sua figlia, ricoverata nel mio reparto con una brutta polmonite Covid-19. Mi stupisco, di solito tutti i giorni i medici aggiornano telefonicamente i parenti a casa. “Preferivo parlarvi di persona, ieri sera mi ha detto che ha paura. Non ho chiuso occhi tutta la notte, sono angosciato”. La figlia ha poco più di quarant’anni, professionista, sposata con figli, non vaccinata. La situazione è critica, noi siamo fiduciosi, ma al momento la difficoltà respiratoria è evidente.

Ripenso a quest’ultima quarta ondata, a tutti coloro che sono stati ricoverati senza vaccino, alle quattro gravidanze critiche, a tutti gli intubati, e mi chiedo dove abbiamo sbagliato.

Sì, caro amico, dove abbiamo sbagliato? Com’è possibile che non siamo riusciti a convincere una persona di quarant’anni, che sicuramente guarirà, ma che ora combatte con le proprie paure e poteva essere a casa con marito e figli?

Non so la risposta, ma mi pongo la domanda in modo critico e voglio riprovare a convincerti.

La pandemia è un evento storico, l’ultima che ricordavano i nostri nonni era la spagnola, purtroppo questa è toccata a noi. Ha molteplici aspetti da considerare, non considero il lock-down una soluzione: tutti dobbiamo vivere, ma non possiamo fingere che il problema non esista. Ci viene in aiuto Giorgio Parisi, premio Nobel: “Un singolo neurone non costituisce una memoria, tanti neuroni insieme sì. Lo stesso discorso vale per i mattoni: una cosa è la scienza del singolo mattone, altra cosa è l’architettura”. Il dibattito polemico ha sempre preso in considerazione singoli elementi: servono le cure domiciliari, serve il plasma, servono più reparti di rianimazione, l’assistenza domiciliare; anzi meglio i tamponi, il green pass. In realtà serve tutto, i grandi sistemi sanitari europei sono andati tutti in crisi, nessuno ha la formula magica.

Ma quello che serve è la vaccinazione, vorrei ritentare di convincerti. Non ho conflitti di interesse, vorrei solo che questo periodo finisse e vorrei tornare a fare lo pneumologo, per non trascurare tutte le altre malattie. Gli argomenti sono sostanzialmente due: efficacia e tollerabilità.

In questi giorni in Italia siamo arrivati a 150.000 positivi, eppure i numeri dei ricoverati sono molto più bassi dell’anno scorso. In Azienda Ospedaliera Universitaria a novembre-dicembre 2020 siamo arrivati a 280 ricoverati, con 30 in attesa al pronto soccorso. Ora contiamo poco più di sessanta ricoverati, circa un quarto. Mi pare evidente che il vaccino funzioni. Certo, non per tutti. Nei reparti ci sono anche vaccinati, anche con la terza dose. Ma sono molto pochi, sono persone con tante altre patologie. In ogni caso, il messaggio è chiaro, il vaccino non previene la malattia polmonare in tutti i pazienti. I vaccinati possono contagiarsi e diffondere la malattia, è vero. Ma con il vaccino si protegge sè stessi.

I grandi dubbi sono sulla tollerabilità. Li avevamo anche noi il 27 dicembre 2020, quando per primi ci siamo sottoposti alla prima dose. Ma non eravamo degli incoscienti, i dati dei trial erano consistenti. Si tratta di un vaccino, non è un siero né una terapia genica. Lo abbiamo consigliato in assoluta convinzione ai nostri familiari, ai nostri figli, ai nostri anziani genitori. Come tutti i vaccini ci sono effetti collaterali, ma sono molto limitati, quasi sempre risolvibili.

Sono convinto che l’organizzazione generale possa essere migliorata, dalla diagnosi alla gestione territoriale ed ospedaliera. Vorrei non ragionare solo sull’emergenza, ma anche sull’architettura del sistema, ma le fondamenta sono il vaccino.

Vi abbiamo dato informazioni sbagliate? Forse sì, o meglio non dovevamo fare previsioni sulla durata. Galileo Galilei ci ha insegnato che le ipotesi vanno verificate, solo ora possiamo dire che il vaccino dura sei mesi e va ripetuto, la prossima durata la verificheremo, ci auguriamo di arrivare a una sola somministrazione. La ricerca sta andando avanti, da otto mesi si curano alcune categorie di pazienti con anticorpi monoclonali, a breve arriveranno anche i farmaci specifici, metteremo anche questo sul piatto della bilancia per bilanciare il peso del virus. Arriveranno anche ulteriori vaccini, con modalità d’azione diversa, ma possiamo analizzare serenamente i dati, i milioni di vaccinati in tutto il mondo, l’efficacia e la tollerabilità.

Non so se ti ho convinto, ci ho provato. Quello di cui sono certo è che i medici, i giovani specializzandi, gli infermieri, i fisioterapisti, gli operatori sanitari, gli amministrativi non sono tuoi nemici. Ogni giorno danno il meglio delle loro possibilità e sperano, almeno quando te, di uscire al più presto da questa situazione.

Claudio Micheletto